I contain multitudes

Foto Alexandra Lagorio / manipolazione Alessandro Adelio Rossi

(I am large, I contain multitudes.) è un frammento tratto dalla penultima delle cinquantadue strofe di Song of Myself del poeta americano Walt Whitman (1819 – 1892). Un verso che ha ispirato la performance I contain multitudes di Alessandro Adelio Rossi (chitarra elettrica, effetti, archetto, e-bow) e Luca Barachetti (gesti vocali, tubi sonori corrugati, bottiglie di vetro e altri oggetti).

Ipotizzando un impossibile microfono di captazione inserito in un corpo umano, l’improvvisazione sonora di Rossi e Barachetti cerca di immaginare e descrivere gli (im)possibili e inascoltabili suoni che i batteri, gli archea, i virus, le cellule – e il DNA di ognuna di esse – producono nel corpo durante la loro opera quotidiana, opera indispensabile alla vita umana sul pianeta Terra.

L’uomo d’altra parte non è un’entità a “compartimenti stagni”, ma è il frutto di quel sistema complesso – che potremmo immaginare come un albero, ma un albero fortemente intrecciato, in cui capita che i rami si “incastrino” fra loro – che chiamiamo evoluzione. La quale fa degli esseri umani non dei semplici discendenti da alcune famiglie di primati, ma degli agglomerati di entità diversificate, interne ed esterne a lui, che lo rendono un essere composto e interdipendente. Un essere che contains multitudes: tutt’altro che al centro del mondo, ma costituito da una massa vivente e non vivente senza la quale neppure esisterebbe.

Qualche esempio

Noi umani siamo abitati da circa 39 trilioni di batteri e composti da circa 30 trilioni di cellule. Il loro DNA non è per nulla “originale”: oltre a condividere il 98,8 % di esso con scimpanzé e bonobo e il 98,4 % con i gorilla, i nostri geni sono per l’85 % identici a quelli del topo, per il 90 % dei gatti e 18.473 geni dei cani hanno un equivalente umano, mentre condividiamo geni pure con esseri viventi molto distanti da noi, come il corallo australiano Acropora millepora, di cui ospitiamo il 90 % dei geni. Inoltre abbiamo conservato il 4% dei geni dell’uomo di Neanderthal (che, ad esempio, ci ha lasciato in eredità la calvizie) e centocinquantadue varianti geniche – eredità dell’incrocio tra Neanderthal ed esseri umani moderni – ci difendono dai virus. I quali non sono soltanto portatori di malattie ma danno manforte al nostro sistema immunitario e – grazie ad alcuni frammenti di genomi virali incorporati nel nostro DNA decine di milioni di anni fa – contribuiscono al funzionamento del nostro sistema riproduttivo e nervoso.