Tra innocenza e redenzione: un’intervista ad Anna Lamberti-Bocconi

La poetessa milanese sarà l’ospite di T¥RSO #5, venerdì 9 febbraio allo SpazioPontano35 di Milano (via Pontano 35). Oltre a lei Alessandro Adelio Rossi porterà per la prima volta scagnèl, la sua performance musicale accompagnata da visual, e a Ghost, I l’elettronica rituale di esorcismo / adorcismo. “La nuova di sangue” sarà invece il titolo del reading che Lamberti-Bocconi porterà allo SpazioPontano35, titolo che anticipa la pubblicazione del suo prossimo libro. Anna non fa spesso reading, quindi quella di venerdì 9 è un’occasione da non perdere (a questo link trovate l’evento Facebook con tutte le informazioni).
Luca Barachetti ha parlato con lei della sua poesia.

LB: Direi di cominciare dall’inizio, anche perché cominciare dalla Fine è difficile, visto che non c’è, e magari ne parliamo dopo. Dunque, come è iniziato il tuo rapporto con la poesia? A che età? E quali esperienze (letture, vissuti, altre forme d’arte) l’hanno determinato?

AL: È iniziato molto presto, spontaneamente, perché ero una piccola grande lettrice molto attratta da tutto ciò che era in rima. Ho imparato a leggere un po’ prima dei cinque anni, grazie alla trasmissione “Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi, qualcuno se la ricorda? E anche a mio papà, ricordo che mi insegnava a leggere sulle etichette delle bottiglie. Bene, da allora il leggere è stato un entusiasmo continuo, che mi piaceva tanto e mi piace ancora adesso. Riguardo alla poesia, c’erano a casa mia dei libroni con la copertina rossa e oro, “Il tesoro del ragazzo italiano”, un’enciclopedia per ragazzi del 1939. Tra le varie sezioni c’era quella dedicata a giochi, filastrocche, racconti, e lì partiva la mia passione per i versi, direi in modo fenomenologico: cioè vedevo che c’erano cose scritte a righe non intere (i versi), che rimavano fra loro, che erano speciali rispetto alle storie normali, che proprio per il fatto delle rime diventavano importanti certe parole, e così via. Tutto questo accendeva molto il mio interesse, così anche prima di scoprire “la poesia” avevo già interiorizzato le sue particolarità di costruzione legate alla parola.

LB: Questa cosa dell’interiorizzazione della poesia, come se fosse un altro linguaggio con cui ti destreggi con la stessa normalità del parlato, emerge molto nelle tue poesie. Fino dall’esordio.

AL: Sì, proprio perché ho approcciato precocemente la “cosa poesia” nel modo che ti ho detto, con attenzione prima alla tecnica che alla lirica. Poi dopo mi è piaciuta anche quella, i sentimenti legati alla natura, per esempio, o il patetismo, che erano contenuti che tiravano ai tempi delle mie scuole elementari. Mi destreggio così perché lo so fare e mi dà soddisfazione.

LB: Hai iniziato presto a scrivere poesie ma hai esordito relativamente tardi: nel 1992 per la collana Millelire di Stampa Alternativa, titolo “Sale Rosso”: un libro piccolo ma già vibrante, intenso. Come ricordi quel primo passo?

AL: Eh, caro mio, un esordio tardivo, io scrivevo già da tanti anni, le poesie mi sembravano belle, ma per un’eventuale pubblicazione ero bloccata da un senso di timidezza folle. Lo desideravo ma mi vergognavo da morire, soprattutto all’idea che capitasse fra le mani di persone che conoscevo, in primo luogo i miei genitori. Sciocchina, eh? Comunque, sta di fatto che un bel giorno mi sono decisa. Mi sono detta “Basta, devo farlo”. Così ho preso coraggio, al Festival dei piccoli editori di Belgioioso ho conosciuto il grande Marcello Baraghini, l’editore, gli ho dato le mie poesie e lui è rimasto convinto e mi ha proposto la pubblicazione. In realtà le avevo date anche ad altri, ma è stato Baraghini a volermi.

A un discepolo
In te rilassa la furia marina,
e chiudi gli occhi al sole lancinante;
prendi l’opaca linfa delle piante
e distillala in acqua cristallina.
Vola come una vespa sui colori
e fanne fresca aria: scindi l’arco-
baleno goccia a goccia sopra i fiori.
Scaglia frecce sottili dal tuo arco.
E, associando a ogni gesto una parola,
mantieni un ritmo poderoso e lento,
come un rapace portato dal vento
spiana le grandi ali mentre vola.
Finché potrai sentire ciò che io sento:
che siamo scissi in una cosa sola.

(da “sale rosso”, 1992)

LB: In questo libretto c’è una poesia, “A un discepolo”, che ad un certo punto fa così: “E, associando a ogni gesto una parola, / mantieni un ritmo poderoso e lento, / come un rapace portato dal vento / spiana le grandi ali mentre vola. / Finché potrai sentire ciò che io sento: / che siamo scissi in una cosa sola.” La possiamo considerare come una descrizione del tuo fare poesia?

AL: Non sono molto d’accordo, non mi sento così quando scrivo. Piuttosto, quella era una visione un po’ esoterica, mettevo in bocca quelle parole a una specie di maestro spirituale, uno che insegna vita, saggezza e magia. Perché associare a un gesto una parola è l’atto magico per eccellenza. Io non sono così saggia e capace, ma ho fatto finta di esserlo immedesimandomi nei panni di un Maestro.

LB: Capisco. Rimane però quel verso della scissione “in una cosa sola”. Che cosa è? Mi sembra siamo lontani da quel verso di Leonard Cohen, “c’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce“, che lui canta in “Anthem”…

AL: “Scissi in una cosa sola” è una frase contraddittoria, o sei in pezzi o non lo sei. Oppure i tuoi pezzetti sono contenuti in una cosa più grande, e così può rimandare all’idea che siamo frammenti di un tutto, “scissi” dall’Uno, l’Indiviso che ci ricomprende. Oppure siamo scissi al nostro interno (scissione è parola psichiatrica…), ma siamo lo stesso una sola persona. In realtà il verso esprime un enigma, e nel contesto della poesia chi sente in sé questo enigma, come il discepolo alla fine del suo percorso iniziatico, ha già raggiunto un disvelamento, anche se l’enigma resta tale. Bisogna dire che al tempo di “Sale rosso” ero interessata all’alchimia e all’esoterismo, anche “Sale rosso” è un titolo alchemico.

LB: Continuando con i libri. “Il vino di quella cosa”, 1995. Ci sono alcune poesie di “Sale rosso” e poi diversi inediti, fra cui questa poesia, “Madre splendente”, che a me pare una preghiera. Ma tu mi hai detto che non credi. Al contempo, in questa preghiera, ci sono questi due versi che, a mio parere, dicono moltissimo di te: “e regalami un solo bacio santo, / dove per sempre nascere innocente,”. L’innocenza, che poi detto in un altro modo potrebbe essere: la vita, l’amore, la morte. Che a me sembrano i temi predominanti della tua poesia…

AL: Mi fai delle domande molto profonde. Dopo per riprendermi mi dovrò fare un frullatone di uova come Rocky. Allora: sono atea ma capisco benissimo cosa significhi credere, affidarsi a qualcosa di trascendente, fra l’altro filtrato da millenni di costruzione narrativa e immaginifica come quella cattolica. Anche lì, come nel caso di “A un discepolo”, mi sono calata nel personaggio, un Io lirico che si rivolge alla Madonna, al simbolo della madre. Nei versi che citi, imploro la redenzione esistenziale, che va implorata proprio perché non è possibile. È il “per sempre” che è importante, cioè nascere con l’innocenza di un neonato ogni secondo. E invece non si può, perché la vita cancella l’innocenza. Altro che peccato originale come punto di partenza dell’uomo! Al contrario, penso che entriamo nell’esistenza innocenti, e il peccato si costruisce vivendo. Come dice Sartre, l’uomo è l’unico animale in cui l’esistenza precede l’essenza, e si è ciò che si fa. Insomma, Sartre era un trombone, ma io suppongo di essere esistenzialista. È vero che i tratti principali della mia poesia sono quelli che hai detto, ma l’innocenza non sta in loro, perché: 1) nella vita si perde l’innocenza; 2) la morte è colpevole per definizione, è un’orrenda assassina; 3) l’amore non saprei, non sono esperta.

LB: Sarà anche profonda la domanda però l’ho posta male. Mi spiego meglio, l’innocenza perduta in opposizione a ciò che ce la fa perdere: la vita, l’amore, la morte. In ogni caso mi viene da chiederti: fermo restando che si possono scrivere poesie, canzoni, film e quant’altro sui temi più disparati, gratta gratta non è lì l’essenza? La vita, l’amore, la morte. Se, sopra le stratificazioni che possiamo mettere in un’opera, scavandola non troviamo una o più di quelle tre cose, l’opera non è inutile?

AL: Ah, adesso ho capito. Certo, vita amore e morte sono le uniche cose che rendono “utile” (un termine che mi suona strano, ma va bene lo stesso) un’opera. Aggiungerei anche la bellezza. Prima ho nominato la redenzione, che è l’anelito dell’innocenza perduta. E naturalmente la dannazione. La dannazione non tanto perché si fanno cose cattive, ma perché siamo condannati ogni momento, non per colpa nostra, a perdere l’innocenza, lo sguardo puro, la libertà. 

Madre splendente
colonna e corona d’oro
eco delle tue labbra un coro di onde
lucente melograna lavata in mare
riemersa celestiale
salata ed aspra come scia del parto
come cometa ardente:
volgi il tuo canto a un’anima implorante
che mentre si inginocchia si confonde
e trema nell’azzurro del tuo manto,
vola nella mia mente, vergine e meta
e regalami un solo bacio santo
dove per sempre nascere innocente,
madre splendente.

(DA “IL VINO DI QUELLA COSA”, 1995)

LB: A questo punto non posso evitare di chiederti: a cosa ti serve scrivere oggi? E in passato? Come ti dicevo qualche tempo fa a me sembra che la tua poesia sia – per te che scrivi, ma credo, in certi casi, anche per chi legge – eucaristica, nel senso che da essa ti fai mangiare per poi rinascere ogni volta, ma sarebbe meglio dire sopravvivere ogni volta: sei una sopra-vissuta, nel senso che con la poesia sei riuscita a vivere sopra le questioni umane, pur soffrendone e non lasciandole indietro, ma portandole avanti, in un crescendo d’intensità, che poi è quello della tua poesia fino ad oggi.

AL: Mi serve perché ho bisogno di esprimermi. Persone care mi dicono che parlo tanto, ma io sono portata a dire tutto quello che ho in mente, lo faccio anche da sola. In passato, a differenza di oggi, credevo anche che la poesia e la letteratura, insomma l’arte in genere, avessero una grande importanza, potessero avere una missione nel mondo e perciò “mi serviva” anche sentire di essere una poetessa. Adesso non credo più che la poesia sia importante, ma l’urgenza espressiva è rimasta intatta. Per il resto, mi sento senz’altro una sopravvissuta, soprattutto perché tante, troppe persone a cui volevo bene non ci sono più, e io sono sempre qui ma intanto tutto precipita nell’imbuto del tempo. Che interessante questa cosa della poesia eucaristica! Non ci avevo mai pensato. Io vorrei rinascere in purezza ogni secondo, come si è detto prima, ma invece sopravvivo. È già qualcosa, no? Sì, questo dono della poesia (e dico “dono” perché io non ho fatto niente, sono nata così), mi aiuta a elevarmi, almeno nel momento felice in cui scrivo. Tutte le cose legate alla sofferenza diventano a modo loro belle se inserite in una poesia scritta bene. Quando mi capita, sono contenta perché la trasformazione è riuscita.

LB: Non avrei mai detto, leggendo le tue ultime cose, che non credi più che la poesia sia importante. Come mai?

AL: Eh, da un lato è una cosa soggettiva, non me ne importa più tanto, non sono più esaltata della poesia come in gioventù. Non leggo neanche quasi più poesia, non mi destreggio tra le novità, leggo male su internet, c’è troppa dispersione. Poi ci vuole un po’ di spazio, di serenità, e la mia vita è troppo concitata, non riesco. Leggo romanzi e, quei due minuti che mi restano per respirare poeticamente, al limite scrivo o insegno. Ma per fortuna ho letto tantissimo in passato, la base c’è. Ciò detto, dal punto di vista oggettivo la poesia a che cosa può servire se non ha più autorevolezza, non fa da guida: ma sai che ho una raccolta della rivista “Oggi”, un rotocalco, e ho visto che negli anni ’60 c’era una rubrica di poesia tenuta da Ungaretti? Cose inimmaginabili ai nostri giorni. Senza una guida critica seria e attestata ognuno può dire quello che gli pare, tutto è sullo stesso piano, domina una cultura ignorante e la poesia cosa vuoi che diventi? Basta vedere certi personaggi acclamati e che vanno sempre in televisione a dire le loro poesie ogni volta che c’è una disgrazia… Infine, con una battuta, mi piacerebbe che la poesia potesse fermare la terza guerra mondiale, allora sì che sarebbe importante.

LB: Però nel 2010 hai pubblicato “Canto di una ragazza fascista dei miei tempi”, un libro che mi ha sorpreso, dove accanto alla tua sofferenza entra quella degli altri, della ragazza fascista e di altri personaggi. È un libro che ha un valore politico? Perché se lo ha, beh, la poesia o, meglio, certa poesia non “pronta all’uso”, non d’intrattenimento, una sua importanza la ha, eccome. Insomma, perché lo hai scritto?

AL: Non vorrebbe avere un valore politico, ma se proprio vogliamo, storico, in quanto racconta una brutta vicenda tipica di quegli anni. Se sono riuscita a dare l’immagine di un’epoca, son contenta. I protagonisti appartengono a tre habitat in cui sono o sono stati presenti giovani neofascisti (la terrorista anni Settanta, l’ultrà proletario, l’aristocratico evoliano), e poi c’è la poetessa, che sarei io, che invece era innamorata della sua bellissima mamma, girava per Milano e scriveva le loro storie. In realtà volevo raccontare qualcosa di molto duro da un lato inconsueto e poco battuto. A un certo punto nel testo si parla di “passioni perdenti”, verso le quali ho una forte empatia, e tutti quei ragazzi in modo diverso le hanno provate.  Ma soprattutto volevo tirare una bordata all’istituzione familiare, all’incomunicabilità fra genitori e figli, al fatto che i tre ragazzi persi di cui racconto sono annodati con i loro genitori in un non-dialogo che ha contribuito molto a farli diventare quello che sono.

LB: Volevo parlare anche della tua lingua, di questa capacità che hai di abitarla, di tenerla pulita usando combinazioni di parole semplici, quotidiane, ma di sapere combinarle in un modo alchimistico, con accostamenti o rime (quelle interne danno una forza musicale rara): mi bisbigliano che hai una conoscenza della poesia gigantesca. È così? Conoscenza che significa mestiere, mestiere che significa altissimo artigianato. E dall’altra l’ispirazione? Spiegami un po’ come funziona per te…

AL: Grazie! Sì, ho letto molto, ho ragionato sopra a quello che mi piaceva e a volte l’ho approfondito, anche se purtroppo non ho una conoscenza sistematica. Qualcosa mi sarà rimasto dentro. Banalmente, penso che non ci sia niente che aiuti a scrivere quanto il leggere. L’ispirazione mi viene quando noto qualcosa che mi colpisce, e intuisco che possa essere un nucleo su cui soffermarsi; qualcosa che vedo e mi dà come un flash. Allora se c’è l’occasione buona, cioè un attimo di calma, provo a dipanare in versi questa visione. Oppure, un altro caso, mi vengono in mente delle parole strane che stanno bene insieme, e mi pongono una specie di sfida a continuare, allora provo a svilupparle. Mestiere e artigianato li diamo per scontati, perché poi si tratta di mettere insieme una composizione il più bella possibile, a volte mi riesce, a volte no.

LB: Domanda secca, risposta secca: quindi conta di più l’ispirazione o l’artigianato (inteso anche come pratica della poesia da lettore o lettrice)?

AL: L’artigianato. Nel senso che puoi avere anche un’immensa ispirazione, ma se non sei bravo a scrivere la poesia viene male.

Guardare la disfatta evolutiva con tremendo distacco –
io, la signorina di Cro-Magnon, in piedi sugli acquedotti
romani, su dolmen e mehnir – averlo dentro il futuro
tutto saputo già, scientifico, a calcoli astronomici
di sacerdoti – a fegato su marmo, caldo come gli agnelli
calata la lama – io signorina colma di nudità dritta al vento,
coi capelli scompigliati, i capitelli divelti,
colonne mozze, i capezzoli a freccia – conoscere l’attacco
e la fine, per nobiltà ancestrale, per il semplice fatto
che a mano libera la genetica mi disegnava nel tempo.

(DA “LA SIGNORINA DI CRO-MAGNON, 2014)

LB: Concordo. Tornando ai libri. 2021, “La signorina di Cro-Magnon”, l’ultimo libro di poesie che hai pubblicato. L’inizio è fulminante: “Guardare la disfatta evolutiva con tremendo distacco”. In questo libro ci ho trovato un qualcosa di atavico, se vuoi anche di tragicamente scientifico. Rispetto alla trentaquattrenne de “Il vino di quella cosa”, oggi – quale poetessa – come ti senti? Cosa puoi dare al mondo?

AL: E certo, il titolo stesso è scientifico, con dentro un nome degli uomini primitivi, tutta la cosa affascinante dei Neanderthal e dei Cro-Magnon, e così via. La razza umana più si è evoluta e più è andata verso lo sfacelo, e la signorina di Cro-Magnon sono sempre io, ieri come oggi, tutta fine coi suoi libri quadri e musica classica, e povera, primitiva e atavica come pochi. Quindi lei osserva dall’alto, capisce tutto, bella ed altera (lei, sia inteso, non io che non capisco mai niente), e fa partire il libro. Adesso che ho tanti anni di più da “Il vino di quella cosa”, oggi come allora posso dare al mondo quello che il mondo vorrà prendere di me; sono di libera fruizione. Vorrei che le mie poesie trasmettessero un senso di autenticità, di avventura spirituale e di rivolta verso le norme fasciste e borghesi del mondo – ma sono parole davvero enormi – e spingessero i lettori in tal senso. La cosa nuova rispetto a tanti anni fa è che sono diventata brava a insegnare, poi va be’, ho acquisito più distacco dalle cose, ma non so se è un bene o se è un male.

LB: A proposito di insegnare: la poesia è anche un qualcosa che insegni in corsi e seminari. Chi viene da te? Qualcuno che vuole imparare a scrivere poesie, o a migliorarsi come poeta? Ma la poesia si può insegnare? Tutti possono praticarla? Io credo di sì. Con quale risultato qualitativo, poi, è un altro discorso.

AL: I miei carissimi allievi hanno diverse motivazioni per frequentare i corsi. Alcuni scrivono già e vogliono migliorare, altri vogliono provare una cosa nuova. Credo anch’io che la poesia si possa insegnare, e trovo assurdo il discorso contrario, che pure circola. Si possono insegnare la musica, la danza, la pittura, ma la poesia no? A pensare così, la si colloca in una dimensione intoccabile, come se fosse una grazia che o ce l’hai o non ce l’hai, e la povera poesia rimane nella classica torre d’avorio. Certo che tutti possono praticare la poesia, è bella e fa bene, può perfino diventare un vizio positivo. Dal momento che tutti hanno sensi e sentimenti, tutti hanno una sensibilità poetica più o meno accentuata; i corsi molto semplicemente aiutano a tirarla fuori, a metterla in opera, e insegnano a maneggiare i ferri del mestiere.

LB: Direi che ti ho chiesto tutto. Ti sei divertita?

AL: Moltissimo! E tu?

LB: Sì, certo!

Anna Lamberti-Bocconi è nata a Milano nel 1961. Conduce Laboratori di scrittura poetica dal 2007. Ha pubblicato le raccolte Sale Rosso (Stampa Alternativa, 1992), Crasi (Pulcinoelefante, 1994), Una poesia (Pulcinoelefante, 1999), Il vino di quella cosa (Campanotto 1995, ristampa 2004), Devi chiamarmi sempre (Campanotto, 2005), La signorina di Cro-Magnon (Sartoria Utopia, 2014), Teatro dell’amore. Poemetti, canzoni, poesie lunghe (Le Voci della Luna/Dot.com Press, 2015); il poemetto Canto di una ragazza fascista dei miei tempi (Transeuropa, 2010); in prosa, Sola sul cammino (Xenia, 1999), La forza della preghiera (Sperling e Kupfer, 2000), Sono stato quel ragazzo (SEB, 2005), Rumeni (Stampa Alternativa, 2009),. Come autrice di testi di canzoni ha collaborato con Ivano Fossati, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni, gianCarlo Onorato.