Arrivare alla gioia, una riflessione su “Chthulucene. L’umana parentela” a Orlando Festival

Quando io e Alexandra Lagorio abbiamo scritto “Chthulucene. L’umana parentela”, partendo dalla performance originaria “Chthulucene”, entrambe germogliate da varie letture, fra cui la più importante è stata quella degli ultimi libri di Donna Haraway, lo abbiamo fatto su due piani che da subito – e non poteva essere altrimenti – si sono ibridati tra loro: un piano di scrittura teorica e un piano di scrittura pratica.

Nel dialogare continuo di questi due piani è emerso – riflessione dopo riflessione, prova dopo prova, stando attenti che la performance mantenesse un nucleo improvvisativo, e quindi generativo di possibilità – un percorso. Un percorso che, partendo da un verso dell’Amleto di ShakespeareA little more than kin, and less than kind») e tornando nel finale ad esso, attraversa un’elegia malinconica sulla tossicità del mondo in forma d’ambient-blues carico di solitudine e dolore, dal cui suono emerge la voce di Carmen Pellegrinelli, che legge un frammento, nucleo della performance, tratto da Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto di Haraway.

Quindi, dopo le parole dette da Carmen, il percorso si immerge nella seconda parte, una rappresentazione sonora di quella che abbiamo chiamato melancolia, parola-chiave che abbiamo adottato per includere gli stati d’animo negativi del nostro contemporaneo infettato di turbocapitalismo (depressione, malinconia, burnout, gesti autolesionistici, etc.), nonché piccolo omaggio a Lars Von Trier. Successivamente, con la poesia Simpoietico detta da Sole Fontanella, sopraggiunge un’apertura verso un momento altro, differente, interrogativo e più chiaro rispetto alle atmosfere livide delle parti precedenti («che cosa posso dare al mondo?»):

Simpoietico
(l’umana parentela)

che cosa posso dare al mondo
se non protendermi nel vuoto
interpenetrare tutti i corpi intorno
di donne e uomini, transliminali e soli
melancolie incarnate e fragili

che cosa posso dare al mondo
se non ricompostarmi nel garbuglio
di tutti gli humus sinaptici e ventrali
nel noi che imparentando genera
la scorza tenera e l’intruglio
di un mondo nuovo
altro mostro nostro.

che cosa posso dare al mondo

che cosa posso dare al mondo

che cosa posso dare al mondo

che cosa posso dare al mondo

che cosa posso dare al mondo

che cosa posso dare al mondo

Tuttavia, durante le prove non abbiamo mai effettuato, ma solo immaginato, quello che sarebbe successo poi, perché mancava un elemento fondamentale della performance: il pubblico e quindi il gioco di filo conclusivo.

È in quel momento dal vivo, quando le tante persone presenti nel pubblico sono stato collegate fra loro da 80 metri di filo giallo, che “Chthulucene. L’umana parentela” ha avuto il suo compimento, altrimenti impossibile. Basta guardare le fotografie dello spettacolo per capire che cosa è questo compimento, dopo una parte elegiaca e una melanconica – in parole povere, dopo due parti tristi. Questo compimento, il compimento di un percorso, è stato in tutto e per tutto un arrivo alla gioia: la gioia di riconoscere l’interdipendenza fra esseri umani, l’unica vera radicale verità del tempo umano attuale, passato e futuro. Non io sono, ma noi siamo.

Per qualcuno questo gioco di filo sarà stato noioso e troppo lungo, per qualcun altro divertente ma effimero, per qualcun altro ancora più sostanziale e significativo. Poco importa: il filo giallo che ha unito le persone fra loro e con noi, con me e Alexandra, ha simboleggiato una dinamica che è l’unica, germinale, fondativa risposta all’individualismo e alla competitività richiesti e comandati dal liberismo, alle guerre e alla distruzione incessante del pianeta che abitiamo. Accadimenti che, lo si voglia o no, sono sovrastruttura, ridondanza, imposizione rispetto alla sostanziale “simbiosi” della vita umana sul pianeta Terra. In modo simbolico e momentaneo nella performance, ma in modo metodico e generativo nella vita reale, possiamo adottare la gioia di questa interdipendenza come base per agire – o semplicemente per gioire – in rifiuto al disumano attuale.

La gioia della nostra ineluttabile interdipendenza è l’unico strumento che abbiamo per partire, costruire e concretizzare un futuro diverso, una trascendenza terrena e orizzontale, una nuda vita in forma di un noi extra-parentale ed extra-conoscitivo (non si conoscevano tutte le persone che hanno tenuto gli 80 metri di filo levati in aria, fatti vibrare, in una sorta di gesto rituale della gioia).

Nel mio percorso di tentativi artistici, che dura da vent’anni, ed è passato da tante esperienze diverse (formazioni musicali come i Bancale e i Barachetti/Ruggeri, le cose fatte insieme ai compagni del collettivo T¥RSO, fra cui le performance con Alexandra, Alessandro, Daniele, Claudio e altre che ne verranno), è la prima volta che un accadimento artistico a cui prendo parte arriva alla gioia. Non mi era mai capitato prima. Ed è un avvenimento importantissimo nella mia esistenza – e magari anche in qualcuno che ha preso parte alla nostra performance, chissà.

Solo venerdì sera, di fronte alle persone, lasciando volutamente che “Chthulucene. L’umana parentela” si sciogliesse nel pubblico e lasciando che la performance non avesse, quindi, un finale canonico (fatto da quella separazione fra artista e pubblico, carica di applausi e gratitudine, che di solito conclude ogni situazione artistica), ho realmente compreso, al di là delle teorie, che è questa, la nostra umana, radicale, complessa interdipendenza, l’unica possibilità di emersione dal liquido amniotico del pensiero dominante: «Il mio intento è far sì che il «kin», la parentela, significhi qualcosa di diverso, qualcosa di più che entità legate dalla stirpe o dalla genealogia. Per un po’ questo pacato intento di de-familiarizzazione potrà sembrare solo un errore, ma un giorno (se la fortuna ci assiste) sembrerà che le cose siano sempre state così. Generare parentele significa generare persone, non necessariamente intese come individui o esseri umani. All’università rimasi colpita dal gioco di parole tra kin e kind formulato da Shakespeare nell’Amleto: le persone più kind, ovvero le persone più premurose, non erano necessariamente i membri della famiglia. Generare parentele – making kin – ed esercitare la premura verso l’altro – making kind – (intesi come categoria, cura, parentele senza legami di sangue, parentele altre e molte altre ripercussioni) sono processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia» (Donna Haraway).

“Chthulucene. L’umana parentela”, e la sua gioia finale, sono stati per noi un punto di arrivo e di ripartenza. Verso dove non lo sappiamo, ma con un’esperienza fondativa nelle tasche.

(foto di Carlo Valtellina)