Perché “L’uomo che piantava gli alberi”?

Dopo più di vent’anni mi sono ritrovata a rileggere “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, in occasione della prossima data T¥RSO #16 che si terrà Sabato 18 Gennaio 2025 alle ore 21.00 e che vedrà dopo una breve apertura musicale da parte di Montmasson e Luca Olivieri, la lettura del testo di Giono da parte di Damiano Grasselli di Teatro Caverna, accompagnata dai disegni di Alessandro Adelio Rossi e dalla sonorizzazione da parte dei membri del collettivo T¥RSO.

La storia di Elzéard Bouffier, contadino provenzale che imperterrito, ogni giorno, nonostante le difficoltà, seleziona ghiande, semi e piantine con l’obiettivo di ricreare una foresta su un terreno inaridito dal tempo e dallo sfruttamento dell’uomo, è talmente bella che vorremmo fosse vera. Invece, nonostante la narrazione in prima persona che riporta elementi reali della vita dell’autore (le sue origini, l’aver combattuto a Verdun), il racconto è completamente frutto della fantasia dell’autore: Jean Giono (1885-1970), controverso autore italo-francese originario proprio di quella Provenza che viene descritta in questo racconto (ed in gran parte dei suoi libri). 

Jean Giono

Rileggendo questo libricino mi è tornato in mente “Il sale della Terra” di Wim Wenders che ripercorre la vita del fotografo brasiliano Sebastião Salgado e che lo vede impegnato assieme alla moglie nel progetto di riforestazione della Mata Atlantica. Quindi, che la storia sia vera o no, conta fino ad un certo punto: il mondo è pieno di Elzéard Bouffier se ci fermiamo a pensare e a cercare di trovarli. Il punto (e la forza) di questo racconto risiede nel fermarci a riflettere sulla metafora che Elzéard Bouffier rappresenta: in un mondo arido, deserto, in cui ciclicamente imperversa la guerra (in questo caso la Prima e la Seconda guerra mondiale), c’è sempre chi porta avanti una resistenza (anche se solitaria e silenziosa) che mira a riportare vitalità e bellezza sul pianeta. Insomma, alla domanda che chiude le due performance ChthuluceneChe cosa posso dare al mondo?” Elzéard Bouffier risponderebbe “Una foresta”. Una foresta che racchiude per l’appunto bellezza e vita. 

Questa resistenza non è priva di sforzi e dolore: il protagonista ha deciso di intraprendere questa strada a 55 anni, dopo aver perso la moglie e l’unico figlio, in un momento di grande solitudine in cui si immaginava non gli rimanesse più molto da vivere in termini temporali e soprattutto di senso. Inoltre, il processo di rigenerazione della foresta procede con alcuni intoppi: diecimila aceri muoiono; ogni centomila querce piantate ne nascono ventimila e di queste diecimila vengono distrutte dagli animali o dalle intemperie. Eppure Elzéard Bouffier continua imperterrito a piantare. 

Una fotografia di Sebastião Salgado

Il messaggio è talmente chiaro che non può sfuggire: anche se il mondo è arido, non bisogna arrendersi e continuare a fare la propria parte, per renderlo vitale. Basta un solo uomo che pianta gli alberi per creare una foresta. Al termine non posso fare a meno di chiedermi: e se invece di un uomo solitario e silenzioso a piantare gli alberi fossero un gruppo di uomini allegri e vocianti?

Alexandra Lagorio